Invocazioni. Ecologie di contatto.
Chiara Bettazzi
Bienalsur 2025
A cura di Benedetta Casini
MUSEO DI ROMA PALAZZO BRASCHI
13 novembre al 23 gennaio 2026
Chiara Bettazzi: oggetti d’incontro
Attraverso la fotografia e l’installazione ambientale Chiara Bettazzi indaga l’idea di trasformazione in relazione al paesaggio industriale e all’elemento vegetale. Sin dagli esordi la sua ricerca è legata a una riflessione sull’accumulo di oggetti d’uso quotidiano e il loro riutilizzo in composizioni che evocano presenze animate. Nei ritratti fotografici di Palazzo Braschi a prendere vita sono oggetti domestici assemblati a elementi vegetali: un materasso avvolto da panneggi e lenzuola, una stampella, l’anta di un armadio, un supporto ligneo e un tavolino da cucina sostengono una composizione di fiori finti che si affaccia da una delle estremità. L’artista mette in scena la metamorfosi degli elementi fotografati in diverse pose nel cantiere dell’ex convento di Sant’Orsola a Firenze: ad animare queste figure dal carattere fantasmatico è la progressione sequenziale degli scatti. La successione di immagini testimonia l’azione quasi performativa dell’artista che ne compone e scompone le parti, mantenendosi dietro le quinte, esclusa dallo sguardo. A metà fra nature morte e deposizioni, questi assemblaggi suggeriscono uno stato di permanente dinamismo del soggetto legato all’evoluzione degli accadimenti naturali. L’installazione ambientale che accompagna le fotografie vive invece di una precarietà costitutiva, strettamente legata alla temporalità della mostra: è attraverso l’ibridazione di materiali organici e inorganici che la composizione prende forma, in direzione di un equilibrio caotico in cui ogni elemento trova la sua collocazione naturale.
Invocazioni
Milano e Roma
Tra le esposizioni che compongono l’itinerario di BIENALSUR in Italia quelle di Milano e Roma propongono un percorso concettuale che analizza la relazione tra il corpo umano e i corpi non umani del mondo che abitiamo: di volta in volta gli animali, il paesaggio naturale, l’elemento vegetale e le pietre come archivio di un tempo millenario. Ad unificare il percorso declinato nelle diverse sedi espositive è il termine “Invocazioni”, tratto dal testo di James Hillman “Cultura e Anima Animale”, in cui lo psicoanalista descrive l’invocazione come un richiamo a spiriti invisibili, un’offerta o una propiziazione che implica uno spostamento del soggetto umano dal centro della scena “verso le ali (i fianchi), in un gesto anti-moderno che ignora l’ego, l’eroe, le intenzioni e la biografia della persona, spostando l’attenzione verso i lati”.
Uno sguardo laterale che non si dirige al terrore primordiale che sta dietro, né verso un futuro di soluzioni, ma verso i lati, “verso quell’altra parte dove abita l’anima, estesa per il mondo e libera dai vincoli della pelle, delle preoccupazioni e delle predilezioni umane”. Rivolgersi agli altri abitanti del mondo, invocarli, implica la predisposizione a una conoscenza altra, la necessità di appellarsi a entità la cui azione nel mondo sfugge alle logiche antropocentriche.
Nell’indagare la relazione fra l’uomo e il mondo la maggior parte dei lavori esposti mettono in discussione, talvolta in modo implicito o non intenzionale, la separazione dicotomica fra soggetto e oggetto, in direzione di quel prospettivismo di ispirazione amerindia teorizzato dall’antropologo brasiliano Eduardo Viveiros de Castro, sorprendentemente affine al concetto di Anima Mundi ripreso da James Hillman nel tentativo di ripensare l’approccio psicoanalitico occidentale. Entrambi i pensatori criticano l’approccio della metafisica occidentale per cui “conoscere” vuol dire de-soggettivizzare l’altro, ridurlo ad “oggetto”, azzerandone l’intenzionalità: in questo processo di analisi, basato sulla pretesa di conoscenza assoluta, l’uomo ha ritirato l’anima dal mondo. Secondo l’approccio occidentale “conoscere è dis-animare [ritirare l’anima], sottrarre la soggettività dal mondo”, dice Viveiros de Castro.
Al contrario, per gli sciamani delle Americhe conoscere implica attribuire a ciò che si cerca di comprendere il massimo dell’intenzionalità, “determinare l’oggetto della conoscenza come soggetto”. Il mondo è infatti considerato come un luogo abitato da esseri animati (umani, animali, spiriti, oggetti, organismi naturali) dotati di prospettive e identità multiple che si intrecciano e si modificano a seconda dei punti di vista. Non esiste dunque una verità interpretativa a cui afferrarsi, un’oggettività funzionale a riaffermare le convinzioni identitarie del soggetto umano, ma un flusso di relazioni in divenire.
Nelle pieghe dei diversi progetti espositivi si legge proprio questa urgenza di soggettivare il mondo, conferendo dignità significante ad esseri animati e inanimati, organismi con cui gli artisti selezionati propongono ibridazioni virtuose e dialoghi inaspettati, in uno spostamento dello sguardo antropocentrico e un’apertura alla possibilità di un pensiero non umano, ricettivo agli insegnamenti della natura e disposto a leggere la complessità del mondo attraverso un approccio sensoriale, fisico, mai meramente strumentale.
Tentare di conversare con una statua, accarezzarne i lineamenti, farsi pietra sovrapponendo i propri arti ad un frammento di roccia, trasformarsi in un pesce intrappolato in un acquario, ingerire pietre, terra, immagini di paesaggi: attraverso inversioni prospettiche gli artisti in mostra sperimentano le possibilità di relazioni interspecifiche. Il rapporto e lo scambio con specie diverse, sia esso di tipo simbiotico o antagonistico, consente di superare il dualismo classificatorio che vede contrapposte natura e cultura, corpo e anima, soggetto e oggetto. In questo processo a disfarsi la centralità dell’io, misura di tutte le cose.
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